MOLFETTA. “A chi ha dimenticato”

beati tesserino

Molfetta - Mir sada, pace ora (1992-1993). Dove sono i pacifisti, dove sono i pacifisti. Questo ritornello, che avrei sentito più volte nella mia vita, pur avendone dedicata praticamente una all’impegno per la pace, aleggiava nel nostro paese e non solo, al furoreggiare della guerra nei Balcani. E allora accadde quello che non ti aspetti: nel dicembre 1992, 500 pacifisti partecipano a Mir Sada: un gruppo di insigni giuristi preparano delle proposte di negoziato da fare alle parti belligeranti e la “carovana” punta dritta a Sarajevo, attraverso la via della montagna, da nord, più sicura per quanto attiene alla linea del fronte, partendo da Split (Spalato), dopo un viaggio temerario e tempestosissimo da Ancona.

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Molfetta – Mir sada, pace ora (1992-1993). Dove sono i pacifisti, dove sono i pacifisti. Questo ritornello, che avrei sentito più volte nella mia vita, pur avendone dedicata praticamente una all’impegno per la pace, aleggiava nel nostro paese e non solo, al furoreggiare della guerra nei Balcani. E allora accadde quello che non ti aspetti: nel dicembre 1992, 500 pacifisti partecipano a Mir Sada: un gruppo di insigni giuristi preparano delle proposte di negoziato da fare alle parti belligeranti e la “carovana” punta dritta a Sarajevo, attraverso la via della montagna, da nord, più sicura per quanto attiene alla linea del fronte, partendo da Split (Spalato), dopo un viaggio temerario e tempestosissimo da Ancona.

Ma c’era qualcosina in più rispetto alle proposte giuridiche da fare alle parti belligeranti: l’interposizione nonviolenta. Scriverà Gianfranco Bettin: “Mi colpirono, al pari, l’audacia e il buon senso dell’iniziativa. Il fatto che un gruppo così numeroso di persone si muovesse scavalcando la distanza e le impervie difficoltà specifiche del viaggio, per “mettersi in mezzo”. Per interporsi e dire a voce alta che eravamo per una soluzione dei contrasti diversa dalla guerra. Un’idea che oltretutto sperimentammo concretamente lungo il viaggio, in cui spesso incontrammo gente di diversa nazionalità o etnie che attraverso di noi, o insieme a noi, si parlava”.

Fu Kiseliak, una lunga assemblea in cui si decise di proseguire per Sarajevo: il piglio decisionista di don Albino Bizzotto si sposava benissimo con la capacità di ascolto e di rispetto di tutte le differenze di don Tonino Bello e la cosa funzionò: i 500 giunsero a Sarajevo nella notte fra l’11 e il 12 dicembre: fra incontri istituzionali e dialogo con la popolazione civile sembrava aprirsi uno spiraglio di luce, in una città si cui si faceva notte di colpo.

Io? Ero una diciannovenne squattrinata, appena iscritta a giurisprudenza e non ero potuta partire, seguivo con trepidazione quell’appuntamento.

Don Tonino sarebbe morto il 20 aprile 1993. Si pensò di fare una seconda missione di interposizione nonviolenta, Mir Sada 2, nell’agosto 1993: stesso diario di bordo, stessa destinazione, stesse proposte, stesse pratiche, ma stavolta saremmo state ben 2500 persone, da tutto il mondo. Già, saremmo, perché ci sarei stata anch’io: raccolsi centomila lire (il viaggio ne costava trecento), provai a chiamare l’organizzazione padovana dei Beati Costruttori di Pace e… mi fecero lo sconto! Zainone prestato, all’interno roba per campare quindici giorni. Il training nonviolento propedeutico alla partenza l’avevo fatto a Bari, alla Parrocchia di San Marcello. In quell’occasione fui letteralmente adottata da un gruppo di pacifisti/e calabresi, quasi tutti/e ben più grandi di me, che mi scelsero, a soli diciannove anni e guerratempo, quale vice speaker del gruppo di affinità, che si chiamò Omar. Scusandosi molto per non fami speaker, per giunta. Speaker era il calabrese Luigi, di Legambiente.
Purtroppo la linea del fronte era ben peggiorata, già all’altezza di Gornji Vakuf e Novi Travnik, sullla linea del fronte croato-bosniaco, la situazione era improcedibile. In soli sessanta pacifiste e pacifisti, per conto proprio, decisero di portare aiuti a Sarajevo: il laicista Dino Frisullo mi confiderà di aver pregato per loro. Percorsero Gornji Vakuf facendo curve a gomito a 90 km all’ora per non essere accecchinati/e, ma furono salvi/e.

L’assemblea generale decise invece di dirigersi verso Mostar: ci arrivammo in cinquecento, solo per una manifestazione: c’era il coprifuoco alle 16,30, segni di granate dappertutto, polvere da sparo nell’aria, si sparava a pochi metri di distanza. In quella occasione fraternizzai con il gruppo Avanzi di Torino: ci tenevamo per mano verso Mostar, con tanta fifa blu: si sta ipotizzando una rimpatriata dopo quasi vent’anni. Al ritorno dovemmo fare qulche chilometro a piedi per raggiungere i bus, scoppiò un poderoso temporale estivo. Una vecchina, per strada, ci diede un piccolo melone: “E’ tutto quello che ho, grazie di essere qui”. Frigno a go go. Ovviamente il melone era insipido e mal cresciuto, ma è una delle cose più buone che abbia mai mangiato in vita mia.

Tornammo a Split, prima di reimbarcarci verso Ancona. Anche qui si faceva notte di colpo, non c’era luce elettrica ed eravamo in cinque o sei per strada al buio. Ad un certo punto vedemmo le stelle: che spettacolo quell’anno le Perseidi, era un anno speciale e ne caddero oltre trecentomila. Spesso il cielo si vede di notte, diceva Paul Eluard. Sembrava che fosse andato tutto a farsi benedire, quando fummo costretti/e a non proseguire per Sarajevo: scoppiai in un pianto dirotto dopo l’assemblea in cui lo decidemmo, un anziano padre comboniano con tanto di barbone mi diede un quadratino di zucchero con essenza di camomilla e mi calmai. Il sogno di don Tonino sembrava un fallimento. Eppure qualcosa si muoveva: nascevano piccole e capillari iniziative di solidarietà, in loco e in Italia, quella maestra fu Time for Peace, di Arci, Acli e Assopace. Anche a Bari, come Assopace e Provincia, accogliemmo 52 rifugiate/i di tutte le etnie e culture, fu una bella esperienza conclusasi nel 1997, sono stata a trovare alcune/i di loro a Mostar nei primi due giorni del mio viaggio ed è stata una gran festa.

Nel 1996 ci fu la fragilissima pace di Dayton. Oggi il Paese si sta riprendendo e, malgrado la crisi imperante ovunque e le/i molti/ povere/i per strada, ha una forte vocazione turistica e culturale. Avrete di certo notato un certo fare turistico nel racconto del mio viaggio: non ho fatto altro che rispettare la fame e la sete di futuro del popolo bosniaco, il loro “anelito di vita”, direbbe il Vescovo della Controra. Che “muti in serbatoio di speranze questa allucinante vallata di tombe che è la terra”.

Sono stata là per tornare. Quanto prima, quante più volte è possibile, riprendendo qualche grammatica in mano. Implementazione del turismo, implementazione degli spazi sociali e culturali, sono i miei sogni. Ma più di tutto, voglio che il nostro Paese abbia dei corpi civili di pace. Come si deve.

Sarajevo-Molfetta, agosto 2012.

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