AL TEATRO BABILONIA DI MOLFETTA GIACOMO DIMASE IN “SPAIDERMEN”
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Molfetta. A piedi o in bicicletta, con un tarallo di cotone tra la testa e le teglie u uégnòene du furne, esseri mitologici tra garzoni ed equilibristi
Ho vividi ricordi della mia infanzia legati ai miei nonni che abitavano nel quartiere di San Giuseppe. Conosco bene tutte quelle strade che da Corso Fornari si diramano per altre strade storiche molfettesi, via Roma, via Pia e tutte le altre vie che portano alla Chiesa dell’Immacolata, conosciuta come la Chiesa nuova.
Tra i tanti ricordi il profumo appetitoso del pane da poco sfornato, l’odore della frutta, della verdura e del pesce fresco che provenivano dalle diverse piazze e mercati rionali. Erano profumi che venivano fuori prepotentemente dalle finestre, dalle case a piano terra e che caratterizzavano quelle strade che percorrevo accompagnando mia nonna a fare la spesa.
Un altro ricordo olfattivo, che si palesa quando ancora ripercorro quelle strade, sono i profumi delle focacce, dei calzoni, dei peperoni al forno e poi ancora parmigiane, le tielle di patate riso e cozze che si accomodavano nelle mie piccole narici. Indimenticabili e inconfondibili odori delle pietanze tipiche della nostra tradizione culinaria. Il senso dell’olfatto, poi si aggancia a quello della vista e ai ricordi dei ragazzi che a piedi o in bici portavano i tegami al forno a casa delle signore artefici di tutto questo ben di Dio.
Di quei ragazzi del forno chiamati uégnòene du furne mi colpiva la loro abilità nel portare sulla testa quei tegami rotondi, enormi che a volte potevano essere anche due o tre impilati l’uno sull’altro. Era come assistere a uno spettacolo di strada soprattutto quando i garzoni del forno andavano in bicicletta senza tenere con le mani il manubrio, assumendo una posizione retta per stare in equilibrio e non far cadere le bontà che trasportavano. Equilibristi.
Ormai da tempo queste figure per me mitologiche non è dato più vederle. Per curiosità mi sono recata nei due ultimi forni nostrani ancora aperti in città, per fare qualche ricerca non solo sulla figura del uégnòene du furne, ma anche sui quei luoghi così affascinanti che erano i forni a legna.
Dei 38 e più forni esistenti in città quelli ormai ancora attivi sono solo due. Il primo quello più antico, si trova in via Manzoni, fu costruito nel 1902 e ha la veneranda età di 120 anni, come testimonia la pietra posta al tempo della sua costruzione che il gentile giovane fornaio mi ha mostrato. Il secondo forno si trova in via Capitano de Gennaro ed è gestito dal signor Michele e la sua famiglia.
Proprio Michele ci ha raccontato di aver iniziato la sua carriera lavorativa come uégnòene du furne «Quando mio padre ha preso in gestione questo forno io avevo dieci anni e ho iniziato proprio facendo u uégnòene du furne. Ho iniziato portando le teglie a piedi, perché non avevo la bicicletta, e chi te la doveva dare – precisa Michele – eravamo sei fratelli e la bicicletta era un lusso. Solo in seguito ho iniziato a usare la bici. Erano gli anni ’70, ma qualcuno faceva ancora il pane in casa, andavo in giro per le case a prendere il pane con la tavola di legno in testa, per portarlo al forno da mio padre e poi una volta cotto lo riconsegnavo. Portavo qualsiasi pietanza dalle focacce ai dolci natalizi o pasquali in base al periodo. Riuscivo a trasportare, dopo aver adagiato il tarallo sulla testa, anche sei o sette teglie tutte insieme e a volte mi divertivo ad impennare la bicicletta pedalando ad una ruota sola», conclude Michele divertito.
Poi il mio interlocutore si abbandona ad altri ricordi legati al suo lavoro di ragazzo del forno, le donne che durante il periodo di Natale o Pasqua si trovavano in casa per fare i dolci e le atmosfere diverse che si respiravano in città. A mezzogiorno circa abbiamo dovuto terminare la nostra chiacchierata per l’afflusso dei clienti e con un bel pezzo di focaccia che Michele mi ha regalato ho salutato l’ultimo uégnòene du furne.
Foto in home di Antonio Copolecchia
Si ringrazia per le foto Luigi Gadaleta e Rino Andriani
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