“LA CALCE E IL DADO”, A MOLFETTA UNA NUOVA RIVISTA SEMESTRALE DI LETTERATURA
Molfetta. A la presentazione della nuova rivista è in programma sabato 6 luglio presso la Basilica Madonna dei Martiri
Molfetta. In un’intervista sul fenomeno baby gang, la psicoterapeuta molfettese Valeria Minervini insiste sull’importanza dei modelli educativi di riferimento
Quali sono le cause? Quali le conseguenze e su cosa fare leva per arginare il fenomeno? Grazie al contributo della psicoterapeuta molfettese Valeria Minervini proviamo ad analizzarlo sotto l’aspetto psicologico e sociale.
Cosa scatena tanta violenza cieca?
«Intanto sfatiamo un mito! L’estrazione sociale bassa non è strettamente correlata con la microcriminalità. Anzi, in realtà una percentuale piuttosto alta di fenomeni di criminalità minorile afferisce a quei contesti in cui l’estrazione sociale risulta essere medio-alta. È difficile identificare le cause specifiche del fenomeno, certo è che ultimamente tra i giovani essere originalmente trasgressivi sembra essere un bisogno, occorre distinguersi per qualcosa, ma si opta per qualcosa di dirompente. Sembra esserci uno scollamento dalla realtà, nel senso che i ragazzi tendono a sottovalutare le conseguenze delle loro azioni, tanto da non riuscire nemmeno loro a spiegarne i motivi delle loro condotte. Un altro aspetto sociologico rilevante è una tendenza a crescere personalità sempre più narcisistiche che fanno grande difficoltà a empatizzare con i bisogni dell’altro».
Perché si trova confortante, soprattutto per i più giovani, appartenere a un branco?
«Appartenere a un gruppo è confortante per tutti noi. Sono le nostre appartenenze a definire la nostra identità e a darci quel senso di sicurezza e di protezione che da soli non avremmo. Il vero problema è che il nostro bisogno di appartenenza ci porta a giustificare tutto, anche i più beceri atti di violenza. Quando siamo all’interno di un gruppo si crea un effetto di de-responsabilizzazione in cui le responsabilità sono diffuse e da spettatori si assiste perdendo di vista ogni valore e principio morale. Diverse esperienze in ambito di psicologia sociale hanno dimostrato che in gruppo si fanno cose che altrimenti da soli non di farebbero mai!».
Quanto contano i modelli di riferimento? Quale ruolo giocano in questo momento genitori ed educatori?
«Direi cruciale. Genitori ed educatori giocano un ruolo fondamentale nel creare la cultura della gentilezza, del rispetto all’altro, della compassione amorevole, che sembra ormai stiamo quasi perdendo di vista. Anne Herbert diceva “Praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso” un messaggio banale, ma che poi cosi banale non lo è affatto. Come psicoterapeuta mi trovo spesso ad allenare le persone alle buone relazioni, troppo spesso oscilliamo tra stili di comunicazione estremamente passivi in cui ingoiamo offese, soprusi, abusi psicologici di ogni sorta e stili di comunicazione altamente aggressivi improntati a mortificare l’altro, assetati di chissà quale vendetta.
L’attenzione a non ferire l’altro, invece, è la più bella forma di rispetto! Quanto questo lo insegniamo ai nostri figli? Quanto davvero siamo attenti a chi ci cammina accanto o ancora di più a chi vive sotto il nostro stesso tetto? I nostri figli in questo senso diventano il nostro specchio, noi continuamente facciamo da modello e di questo dobbiamo esserne consapevoli. Un giorno lessi questa frase di un comico, Pietro Diomede, che condivido parecchio: “Io credo che alla base del bullismo e dell’arroganza alle superiori ci sia un Suv parcheggiato sul marciapiede dai genitori durante le elementari”. Quanto è vero!
C’è poi da dire che gli adulti troppo spesso diventano corresponsabili di questi atti nel momento in cui rinunciano alla propria funzione educativa per mancanza di tempo. Troppo spesso vediamo adulti con uno scarso o nessun controllo educativo sui propri figli, già in tenera età.
Come mai? Perché fare i genitori è un mestiere difficile, impegnativo e alle volte si cercano nell’immediato soluzioni “comode” che però a lungo termine hanno come effetto quello di non essere considerati come adulti meritevoli di ascolto. L’educazione del passato era spesso troppo rigida, ma sicuramente ha favorito un rispetto referenziale verso l’adulto che ad oggi non è sempre così facile trovare.
Il bisogno di sentirsi buoni genitori è più che legittimo, ma chiediamoci in base a cosa stiamo valutando questo. Non è l’apparente serenità e il momentaneo appagamento dei nostri figli che ci dà la conferma di essere “buoni genitori”. Un genitore deve essere “sufficientemente buono”, ovvero saper misurare le cose buone e portare i figli a vivere le piccole e inevitabili frustrazioni della loro vita senza necessariamente anticipare i loro bisogni.
Anche la scuola in questo senso gioca un ruolo educativo fondamentale, diventa il luogo privilegiato in cui i ragazzi si trovano a scontarsi con le loro ansie e a sperimentarsi nel relazionarsi all’altro. Nelle classi possiamo capire tanto, sopratutto dai momenti informali, però occorre uno sguardo attento e un’attenzione specifica che sappia andare oltre il ruolo squisitamente nozionistico, così come occorre che scuola e famiglia ritornino a fare quadrato e supportarsi vicendevolmente».
Quanto sarebbe utile il sostegno psicologico per bambini e ragazzi? Come potrebbe concretizzarsi il servizio?
«Credo sempre che i percorsi più efficaci non possono che includere sia i ragazzi che i genitori. Siamo all’interno di sistemi e quando qualcosa non va è tutto il sistema che ha bisogno di sostegno psicologico. Quando ho comprato la mia macchina nuova dimenticavo di spegnere le luci e la batteria si scaricava continuamente, mi lamentai con la concessionaria pensando a un difetto dell’auto. Che figuraccia! Alla fine ho dovuto semplicemente fare i conti con il fatto che il problema ero io, che dimenticavo di spegnere le luci. Che cosa voglio dire? Non possiamo pensare di “aggiustare un’auto” se prima non facciamo i conti con la nostra capacità di prendercene cura. Questo vale per le cose, quanto per le persone. L’educazione delle nuove generazioni chiama inevitabilmente a interrogare le realtà educative ad ogni livello. Per quanto riguarda il lavoro più specifico con i ragazzi, invece, c’è tanto bisogno di allenare l’empatia e le competenze sociali, nonché di lavorare sulla gestione delle emozioni in particolare di quella sana frustrazione che tutti noi abbiamo provato nell’accettare i no e nel dover affrontare le sfide quotidiane anche con una certa sana dose di ansia.
È la vita, fa parte del gioco, ma questo vuol dire crescere e godersi appieno lo spettacolo».
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